Il 10 ottobre del 1848 il londinese «Times» riportava la seguente notizia: «Si è saputo che quando la fregata Daedalus del capitano M'Quhae, giunta in porto il 4 corrente, è venuta a trovarsi nel passaggio di mare delle Indie Orientali fra il Capo di Buona Speranza e Sant'Elena, attorno alle quattro del pomeriggio, il capitano, alcuni ufficiali, e parte dell'equipaggio, hanno avvistato un serpente di mare». Il breve articolo aveva scatenato una vera e propria pioggia di lettere di sedicenti uomini di mare che, indignati, affermavano che un quotidiano serio non avrebbe mai dovuto riportare simili "baggianate''.
Opposta e totalmente diversa era stata invece la risposta della gente, dei lettori comuni, che erano rimasti affascinati dal fatto, frattanto immediatamente rimbalzato anche su altre testate. In fretta e furia l'Ammiragliato aveva indetto una conferenza stampa al fine di vederci chiaro e aveva subito disposto un'inchiesta. La prima cosa era stata ovviamente quella di sentire il testimone principale, il capitano Peter M'Quhae, per vedere di chiarire la storia. Fra l'evidente imbarazzo dell'ammiraglio Sir W.Gage, a cui era stata affidata la responsabilità degli accertamenti, il capitano aveva replicato che, malgrado qualche irrilevante inesattezza, il racconto comparso sul giornale non si discostava da quella che era stata la realtà: avevano davvero visto un mostro marino. Il fatto era stato registrato nel diario di bordo e sin da subito si era stabilito di rendere noto l'avvistamento ai mezzi di diffusione delle notizie. Ecco, in sintesi, come erano andate le cose. Verso le cinque del 6 agosto 1848, mentre la Daedalus si trovava fra il Capo di Buona Speranza e l'isola di Sant'Elena, un guardiamarina aveva segnalato a prua una sconosciuta creatura marina accompagnare la nave per un certo tratto. La maggior parte dell'equipaggio stava cenando in coperta. Sul ponte c'erano soltanto sette persone, fra cui il capitano, l'ufficiale di quarto e quello di rotta. Tutti avevano avuto modo di osservare quello che il capitano M'Quhae aveva definito un "serpente enorme" - di non meno 30 m di lunghezza - che nuotava in parallelo con la fregata, in apparenza ignaro della sua vicinanza. Secondo il capitano, l'essere viaggiava a una velocità compresa fra 12 e 15 miglia orarie ed era rimasto nel loro raggio di osservazione per non meno di venti minuti. Anche se il pomeriggio era piovigginoso e un po' uggioso, l'atmosfera era sufficientemente tersa per poter vedere con chiarezza, al punto che nel corso della testimonianza aveva puntualizzato: «Si fosse trattato di qualcuno di mia conoscenza, non avrei avuto esitazione a riconoscerlo tranquillamente a occhio nudo». Il mostro aveva una testa serpentina larga e grossa, sorretta da un collo di una quarantina di centimetri, con un corpo che si snodava in circa 18 m di gobbe serpentine che increspavano la superficie dell'acqua. Il colore, uniforme, era marrone scuro, fatta eccezione per la parte sotto la gola che era di un bianco giallastro. Stando a M'Quhae l'animale avanzava senza alcun sforzo, senza l'ausilio di pinne e neppure della spinta derivata dal moto ondulatorio del corpo, tipico dei serpenti e delle anguille. La cosa poteva forse spiegarsi con la presenza lungo il corpo dell'animale di alghe marine, capaci di nascondere pinne propulsive. Mai il serpente era stato visto aprire la bocca e mostrare una «mascella irta di denti aguzzi», come invece era stato riportato nell'articolo del «Times». Tutti i testimoni erano concordi nel riconoscere che certamente lo strano essere non era spaventato, sebbene sembrasse procedere con una tale speditezza da dare ad intendere di stare seguendo qualcosa. Il capitano si era affrettato a farne uno schizzo che aveva presentato all'inchiesta, convertendolo poi in una grande raffigurazione dettagliata a corredo della sua descrizione orale. Per guadagnare credito, l'Ammiragliato non solo aveva chiuso l'inchiesta celermente, ma aveva tenuto a diramare immediatamente il rapporto conclusivo, per placare la controversia nata fra la gente. Il 13 ottobre la relazione compariva già sui giornali e quindici giorni dopo l’Illustrated London News pubblicava il resoconto dell'avvistamento corredato di alcuni disegni, ottenuti dalle indicazioni di M'Quhae, in cui si vedevano la fregata e il mostro marino procedere insieme in mezzo alle onde. In breve il caso era diventato questione all'ordine del giorno e aveva infiammato non pochi accesi momenti di discussione un po' ovunque. I restanti sei testimoni citati dal capitano non fecero che confermare il suo racconto, anche se esistevano senz'altro alcune discrepanze. Una rivista pubblicò una sintesi del giorno dell'avvistamento estratta dal giornale di bordo dell'ufficiale di quarto, il luogotenente Edgar Drummond. Questi, per esempio, aveva valutato in circa 3 m la lunghezza della testa del mostro, senza dubbio troppo grande per poter essere sorretta da una collo di non più di 40 cm di diametro. Per lui il corpo non era più lungo di 6 m e pur ricordando che il capitano aveva detto di averne osservati almeno altrettanti di coda, non si arrivava comunque ai 20 m della descrizione di M'Quhae. Drummond, inoltre, non pensava che il dorso dell'animale fosse incrostato di alghe, ma era più propenso a credere che fosse percorso da una unica, lunga pinna fluttuante. Ce n'era abbastanza affinchè gli scettici soffiassero sul fuoco della incoerenza delle testimonianze e quindi della loro scarsa attendibilità; altri, con più delicatezza, senza mettere in forse la buona fede dei testimoni, si interrogavano piuttosto sulla bontà della loro vista. Un lettore aveva scritto al «Times» pregando di girare al capitano la sua domanda: come mai non aveva dato ordine ai suoi uomini di dare la caccia al favoloso mostro? Mentre un altro ancora si domandava, ma in tono più faceto che serio, perché non gli avessero silurato contro una bella bordata. Un contributo senz’altro più costruttivo al dibattito, venne da una lettera pubblicata sulla «Literary Gazette», nella quale si ricordava che forse il mostro avvistato dagli uomini della Daedalus poteva corrispondere al serpente di mare descritto dal vescovo danese Pontopiddan nel suo importante trattato di zoologia. Si leggeva, fra l'altro: «Può darsi che il prode capitano abbia letto il libro dello zoologo danese, se ne sia rammentato e abbia fantasticato sulla visione di un mostro analogo, dal momento che la descrizione è pressoché identica: dal colore bruno scuro al candore della parte del corpo sotto la gola, al lungo collo e al dorso ricoperto da una sorta di peluria simile alla criniera di un cavallo». Malgrado le accuse, il capitano M'Quhae preferì sempre mantenere un dignitoso silenzio. Per smuoverlo dalla sua apatia era stato necessario l'intervento di uno dei grandi esperti uomini di scienza europei. Si trattava di Sir Richard Owen, anatomista, naturalista e paleontologo, il quale, ad un tratto, si era messo alla testa della crociata dei contestatori contro l'avvistamento della Daedalus. Per molti Owen era reputato il più grande zoologo vivente. Conservatore fino al midollo, sarebbe diventato da lì a poco uno dei più violenti oppositori della nuova teoria evoluzionistica proposta da Darwin. Il primo affondo Owen lo mise a segno inviando al «Times» la copia di una lunga lettera da lui scritta ad un amico, il quale gli aveva chiesto se, ammessi la verità dell'avvistamento, il mostro non potesse per caso esser un esemplare sopravvissuto dell'era dei grandi sauri, l'ipotesi più sovente ricordata nelle varie diatribe in merito. Per Owen il capitano M'Quhae aveva soltanto immaginato che l'animale fosse un serpente marino, perché in realtà non possedeva alcuna conoscenza scientifica, tanto meno biologica, e avrebbe dovuto lasciare le deduzioni agli studiosi. Poi, il luminare giungeva a concludere che doveva trattarsi di un mammifero e, dal momento che era convinto che si stava parlando di un animale già ben noto agli zoologi, aveva citato la Phoca Proboscidea, detta anche elefante marino. (Il livello di preparazione e conoscenza posseduto da Owen in merito ai serpenti di mare si può ben valutare dalla sua affermazione secondo la quale capitava spesso che navi in mare aperto fossero seguite dagli alligatori: informazione del tutto impropria, dal momento che questi rettili non sono bravi nuotatori, tanto da disdegnare persino le turbolenze delle acque fluviali). In effetti, però, l'elefante di mare, che altro non è che una foca gigantesca, può raggiungere anche i 6 m di lunghezza e vive nei mari lungo le coste antartiche. Secondo Owen, un esemplare di questa creatura era rimasto isolato su di un grande lastrone di ghiaccio, sul quale era riuscito a sopravvivere per qualche tempo, poi, una volta che l'iceberg si era sciolto, si era trovato costretto a nuotare in mare aperto fino a che le forze lo avevano assistito. Forse, quando si era incrociato con la fregata del capitano M'Quhae, l'animale stava morendo e questo avrebbe giustificato la sua scarsa attenzione nei confronti della nave. Quello che il capitano aveva scambiato per una lunga parte sommersa dell'animale, altro non erano che le increspature provocate nell'acqua dal movimento orizzontale della possente coda della bestia, che si dipartivano in linea retta dietro il corpo. Infine, quella che era stata scambiata per una sorta di cresta pinnata, non sarebbe stato altro che il tipico corredo di queste foche giganti, una specie di folta criniera da cui appunto il nome di leoni di mare. Owen, dunque, negava con assoluta certezza l'esistenza di serpenti di mare, fondando la sua osservazione sul fatto che, dopo tutto, la scienza non ne aveva mai avuto sentore né prove e chiudeva la lettera dicendo: «Se valutiamo le testimonianze, ebbene, allora è più facile che esistano i fantasmi che non i serpenti di mare». Rivolgendosi al «Times», M'Quhae aveva risposto in tono stizzoso ma deciso che la creatura da lui vista quel giorno non era un leone di mare, animale che ben conosceva, e neppure un qualsiasi altro tipo di foca. In qualità di marinaio esperto, poi, era in grado di valutare la differenza fra una semplice turbolenza e il concreto passaggio in acqua di un corpo solido. Infine, precisava non solo di non di non avere mai letto il libro del vescovo Pontopiddan, ma di averne sentito parlare solo a seguito della lettera comparsa sulla «Literary Gazette» e che dunque quella narrazione non aveva potuto in alcun modo influenzare la sua descrizione del mostro. Infine, M'Quhae chiudeva la sua lettera dichiarando che non era affatto vero che fra i testimoni fosse scoppiata una grande eccitazione, né poteva in alcun modo essersi trattato di un avvistamento frutto di illusione ottica. La sua testimonianza doveva essere intesa per quello che era veramente, vale a dire «la singolare, fortunata opportunità di essere entrato in contato con il "grande ignoto", certamente comunque da non identificare con un fantasma». Questa lettera costituì l'ultima parola del capitano sulla faccenda ed il tono era quello di un uomo stanco da morire per il trascinarsi di una polemica assurda che lo aveva letteralmente sfiancato. A dieci anni di distanza da questi fatti, il capitano Frederic Smith aveva scritto al «Times» raccontando il presunto avvistamento di un serpente di mare fatto dalla sua nave, la Pekin. Il mostro aveva «testa e collo possenti, coperti da una peluria folta, simile alla criniera di un cavallo». In realtà, l'animale si era poi rivelato essere una lunga striscia di alghe marine brunite, ondeggianti nell'acqua. La lettera terminava azzardando che quasi certamente anche il caso della Daedalus avrebbe potuto avere questa spiegazione. Pronta era arrivata la puntualizzazione di uno dei testimoni che quel giorno si trovavano sul ponte della Daedalus. Con fermezza si precisava, ancora una volta, che «il serpente, al di là di ogni possibile dubbio, era un essere vivente, che procedeva rapidamente nell'acqua». L'osservazione non era stata solo ravvicinata, ma anche prolungata. Di nuovo, i dettagli ricordati erano troppi e puntuali per dar adito a dubbi. Alla fine della storia, era stato l'Ammiragliato a dare un piccolo segno di apertura, inserendo il rapporto del capitano M'Quhae e i resoconti dell'avvistamento nell'archivio ufficiale della Marina, primo caso ad avere tanto onore. In verità, ancor prima del 1848 si contavano già dozzine di testimonianze significative sugli avvistamenti di serpenti di mare. In un suo libro, il ricercatore Bernard Huevelmans elenca 150 casi, compresi fra il 1639 e il 1848. Il caso risalente al 1639 è di seconda mano, ma disponiamo di molti altri estremamente dettagliati, proprio come quello del capitano M'Quhae. Per esempio, il racconto del capitano George Little, della I fregata Boston. Nel maggio del 1740, mentre stavo navigando nei pressi di Itmad Bay, al largo del Maine «vidi un grande serpente che stava provenendo dalla baia, proprio sul pelo dell'acqua». Una lancia piena di uomini armati era stata subito calata in acqua per osservarlo più da vicino, ma «dopo neppure una trentina di metri... il serpente si era inabissato. Poteva misurare dai 10 ai 15 m; mentre la sezione più grande del corpo era di circa 40 cm; la testa grande come quella di un uomo, che l'animale teneva di un paio di metri fuori dall'acqua. A vedersi sembrava, in tutto e per tutto, un gigantesco serpente nero».
I casi citati da Huevelmans fra il 1639 e il 1966 arrivano al bel numero di 587. Uno dei più interessanti risalente al 1966 ebbe come testimoni due inglesi, John Riclgeway e Chay Blyth: “Ricordo che venni svegliato completamente da un rumore che proveniva da prua. Scattato in piedi, mi ero affacciato dal ponte per vedere di che si trattava ed avevo così potuto scorgere il fremente ondeggiare di una grossa creatura. La potevo scorgere assai bene grazie al fenomeno della fluorescenza marina, come se attaccato al corpo si portasse dietro delle lampade al neon che ne tracciavano la traiettoria. Era enorme, certamente più di dieci metri e si dirigeva verso di noi velocemente... puntava proprio diritto verso di me, ma appena prima di avvicinarsi troppo era scomparso... La sua apparizione mi aveva completamente raggelato di terrore.”
Huevelmans chiude il capitolo e la rassegna dei casi, ricordando il resoconto di due turisti inglesi che nei pressi di Skegness, nell'Inghilterra orientale, si erano imbattuti in un essere «simile al mostro di Loch Ness», osservato a non più di 100 m dalla spiaggia: «Aveva la testa simile a quella di un serpente e il corpo si snodava in sei o sette ampie gibbosità». Poi prosegue citando Sir Arthur Conan Doyle, per il quale se un uomo sostiene di aver abbattuto un okapi in Africa, non viene creduto; ma se la stessa cosa la dicono cinquanta uomini, «diventa decisamente più convincente». Così 587 avvistamenti - anche se alcuni sono stati sconfessati come falsi e burle - non c'è dubbio che costituiscono una base convincente piuttosto considerevole per un fenomeno che vale senz'altro la pena di indagare. Huevelmans, dunque, analizza i suoi casi, raggruppandoli in sette diverse categorie: le "super lontre", dalla testa piatta e lunga e dal corpo simile a quello di una lontra; i serpenti dalle molte gibbosità; i serpenti dalle molte pinne, con protuberanze laterali; i cavalli di mare, creature con la criniera; i serpenti dal lungo collo, dotati di un collo lungo e sottile, e, infine, le "super anguille", simili a giganteschi serpenti. La settima categoria è una specie di sua invenzione, la «madre di tutte le tartarughe» dal momento che il mostro viene descritto come una gigantesca testuggine ma si tratta di una classificazione che alla fine Huevelmans abbandona, perché poco credibile e dubbia. Le prime cinque classi parrebbero essere mammiferi, la sesta, quella delle super anguille, pesci, considerati i resti scheletrici. Il vescovo Pontoppidan, che già abbiamo incontrato, non fu il primo a descrivere il serpente di mare. Nel 1539 il vescovo svedese Olaf Mansson (il cui nome latinizzato suona Olaus Magnus) pubblicò a Venezia una mappa delle regioni del nord in cui erano raffigurati due mostri marini. E in un libro dal titolo Storia dei Goti, degli Svedesi e dei Vandali edita nel 1555 sempre Olaf descrive un serpente «lungo oltre 60 m e col corpo largo più di 6 m» che viveva ben nascosto negli anfratti al largo di Bergen. Questa storia, unitamente alle drammatiche descrizioni di giganteschi mostri marini che assalgono e distruggono barche e navi, venne ereditata da tutti gli enciclopedisti del tempo e tramandata di testo in testo. A proposito del serpente di mare, riporta la testimonianza diretta, di prima mano, di un certo capitano Lorenz Von Ferry, il quale, avvistata la creatura, aveva dato ordine di inseguirla per osservarla da vicino. Ne era nata una descrizione molto dettagliata, dove il mostro è presentato con la testa cavallina munita di una folta criniera bianca, occhi scurissimi e molte placche rigonfie o gibbosità, separate l'una dall'altra e molto accentuate (almeno un paio di metri di altezza). In merito al libro di Pontoppidan si deve riconoscere che, specie nel mondo inglese, non è considerato una fonte attendibile. La traduzione del 1765 ha provocato molti dubbi e il capitano (poi ammiraglio) Charles Douglas, che aveva a cuore l'approfondimento dell'enigma, ebbe modo di scoprire che molti dei testimoni citati non erano del tutto affidabili. Abbastanza curiosamente, però, scoprì che mentre i popoli del nord, specie i Norvegesi, non esitano a credere ciecamente nell'esistenza dei grandi “Vermi del mare”, come chiamano i serpenti marini, sono propensi invece a relegare il kraken, vale a dire la piovra gigante, nel mondo dei miti. E tutto il mondo scientifico lo aveva sempre ritenuto tale, fino a quando nel 1970 ci fu un cambiamento di rotta e anche la piovra gigante è rientrata nel catalogo delle creature marine esistenti. La leggenda del kraken - il polipo gigante che a volte attacca nuotatori, navi e persino villaggi costieri - è antichissima e la si può far risalire sino al tempo del latino Plinio, che descrive un polipo con tentacoli lunghi quasi dieci metri, emerso dal mare per cibarsi dei pesci che alcuni pescatori stavano salando, lungo la costa del villaggio spagnolo di Carteia. Il mostro era stato ucciso solo dopo una terribile e strenua lotta. Oltre alla cultura romana, tutte le altre in qualche modo legate al mare, posseggono il mito del kraken, sottolineandone la presunta esistenza nella realtà. A confronto, il kraken ricordato da Pontoppidan sembra innocuo. Egli scrive che alcuni pescatori locali avevano scoperto un luogo al largo della costa norvegese in cui in certi periodi dell'anno il livello delle acque, normalmente attestato attorno ai cento metri di profondità, scendeva in modo vistoso, fin quasi a dimezzarsi diventando torbido e fangoso e al contempo pullulante di pesci. A loro giudizio il fenomeno era dovuto alla presenza del kraken, una piovra immensa, dalla circonferenza di oltre un miglio e mezzo, che destatasi dal suo sonno oceanico, attirava i pesci col richiamo dei suoi allettanti escrementi. Il mostro era solito non procurare guai all'uomo, se solo si aveva l'accortezza di starsene in osservazione sulla barca alla giusta distanza di sicurezza. L'animale, infatti, dava segno di una grande inerzia e di massima perizia: osservato da lontano, il suo corpo enorme sembrava un arcipelago di piccole isolette interconnesse fra loro da una sostanza simile a strati di erbacce, qua e là punteggiate da "corni", protuberanze così evidenti da potersi paragonare «a alberi maestri di navigli di medie dimensioni». Una volta terminato il lauto banchetto, procurato dalla miriade di pesci accorsi al suo richiamo, il kraken si rituffava negli abissi e la zona di mare tornava come prima. Con la fine del XVII secolo, questo genere di creature vennero definitivamente relegate nel mondo dei sogni, meglio, degli incubi di marinai e uomini di mare. Ma, poco alla volta, il numero sempre crescente di avvistamenti segnalati nel secolo successivo, specie al largo delle coste americane, fece cambiare ancora una volta la rotta del giudizio scientifico, intaccando con vigore lo scetticismo dei non credenti. Evidenti segni di gigantesche ventose osservati dai biologi sul corpo delle grandi balene e la scoperta nel loro stomaco di frammenti di lunghi tentacoli hanno chiarito, una volta per tutte, che piovre e calamari giganti esistono per davvero. Nel novembre del 1861 l'equipaggio della nave da caccia francese Atecton, ebbe modo di scorgere un calamaro gigante al largo di Tenente ed era riuscito ad arpionarlo. La creatura stava morendo e quindi non solo si era lasciata avvicinare senza reagire, ma quando i marinai avevano tentato di issarla sul ponte della nave si era spezzata in due tronconi. Il corpo era lungo più di otto metri e l'orifizio orale largo circa mezzo metro. La parte recuperata era comunque più che sufficiente a dimostrare l'esistenza dei polipi giganti, tanto da poter trarre un meticoloso rapporto scientifico letto il 30 dicembre 1861 all'Accademia francese delle scienze. Anche davanti a questa testimonianza lo zoologo Arthur Mangin aveva però espresso dei dubbi, chiedendosi come mai la creatura non si era inabissata. Insomma, le sue confutazioni erano state così insistenti e violente da convincere in pratica tutti i presenti che si stava dibattendo un caso fasullo e che il rapporto non era credibile. Sul finire degli anni Settanta del XIX secolo fece notizia la spiaggiatura sulle coste del Newfoundiand e del Labrador di un discreto numero di calamari giganti. Era ovvio che, davanti a quelle prove viventi nessuno avrebbe più potuto obiettare o muovere dubbi. Nel 1896 un corpo gigantesco, per quanto mutilato, si arenò sulla spiaggia di St. Augustine, in Florida, fotografato ed esaminato con attenzione dal dottor DeWitt Webb. Per rimorchiare in terraferma le oltre sei o sette tonnellate della carcassa del misterioso mostro erano occorsi quattro cavalli, sei uomini e un robusto paranco. Il giudizio degli esperti parlò di una balena morta in decomposizione. Ma settantacinque anni dopo, l'analisi scientifica e di laboratorio di un frammento conservato del mostro, rivelò che in realtà si trattava di una piovra gigante (non un calamaro) che poteva raggiungere la incredibile lunghezza di quasi 60 m, una vera e propria colossale creatura che avrebbe occupato una bella parte di Piccadilly Circus o Times Square. Per fortuna imbattersi in un gigante simile è cosa rara. Uno dei resoconti più vivi risale al tempo della seconda guerra mondiale. Il 25 marzo del 1941 in una remota zona dell'Atlantico meridionale, il vascello alleato Britannia era stato oggetto di un attacco aereo di caccia tedeschi battenti bandiera giapponese. L'assalto era stato decisivo e la nave era ormai perduta. I tedeschi, allora, avevano concesso qualche minuto all'equipaggio per lasciare la nave, alla quale sarebbe stato dato il colpo di grazie per affondarla definitivamente. Poiché il Britannia non era corredato da un numero sufficiente di lance di salvataggio, molti marinai erano stati costretti a scendere in mare su zattere improvvisate, trovandosi nel cuore dell'oceano lontani dalle rotte solitamente battute. Una di queste scialuppe di fortuna era piena di uomini stanchi e feriti. Fra questi, si contavano i luogotenenti Rolandson e Davidson della Marina Inglese e il luogotenente R.E. Grimani Cox dell'Esercito indiano, tre dei sopravvissuti ai quali dobbiamo la testimonianza che segue: “non avevano né cibo né acqua potabile e il sole li martellava senza pietà. Per evitare che la zattera si capovolgesse erano continuamente costretti a distribuire il peso, movendosi lungo i bordi con la massima precauzione e stando attenti agli assalti delle fisalie, pericolose con i loro terribili aculei e numerose «come un esercito di api». Il secondo giorno alcuni uomini avevano incominciato a delirare, il terzo era iniziata la danza degli squali attorno al relitto. Dopo altri tre giorni di strenua resistenza, gli uomini avevano cominciato a cedere e, cadendo nel mare, a trovare la loro terribile fine. Un giorno, ad un tratto, per la gioia dei sopravvissuti, gli squali erano spariti. Allora, uno di loro si era messo a guardare verso il fondo e con orrore aveva scorto l'immenso corpo di una creatura tentacolata che stava emergendo proprio nella loro direzione. Un attimo dopo alcuni tentacoli stavano già avvinghiandosi alla zattera. Poi, con la velocità del fulmine, un tentacolo aveva imprigionato un marinaio indiano e lo aveva trascinato in mare. Il grugnito di soddisfazione che si era levato dal mostro aveva fatto intendere la sua momentanea soddisfazione. Dopo qualche istante era stato Cox ad essere assalilo, ma per sua fortuna il tentacolo non aveva fatto bene presa sul suo braccio e con l'aiuto dei compagni era riuscito a ricacciarlo in mare. Alla fine tutto si era placato. Qualche giorno dopo i tre unici superstiti dei dodici imbarcati sul relitto erano stati recuperati da una nave spagnola e messi in salvo. Quando nel 1943 il luogotenente Cox era stato visitato dall'illustre biologo marino inglese, dottor John L. Cioudsley-Thompson, questi aveva avuto agio di osservare sul suo braccio una serie di bruciature a forma di disco, dal diametro di circa 4-5 cm, che piagavano la pelle affondando nella carne, segno doloroso e indelebile dello scampato pericolo. Cloudsley-Thompson non potè fare a meno di ammettere che quei segni, così chiari e distinti, erano del tutto assimilabili a quelli lasciati dalle ventose urticanti di calamari e polipi. Dalle dimensioni dei segni, poi, si poteva tranquillamente dedurre che l'animale in questione doveva misurare più di 7 m di lunghezza. Mentre Richard Owen e i suoi seguaci avrebbero gridato al mostro dalle incredibili proporzioni, l'unica cosa che sembrava tormentare il dottor Cloudsley-Thompson era il dubbio che un animale di quella stazza fosse in grado di avvinghiare e portarsi via un uomo. Al tempo di guerra risale anche un altro interessante rapporto redatto da un certo J.D. Starkey. Una notte, come sovente gli capitava di fare, mentre si trovava a bordo di un motopeschereccio dell'Ammiragliato nel cuore dell'oceano Indiano, stava sistemando alcune lampare sul fianco dell'imbarcazione, fini l'intento di attirare pesci. Guardando verso il mare si era trovato all'improvviso al cospetto di un «gigantesco occhio verde spalancato» che lo scrutava. Sventagliando il fascio di una potente torcia, Starkey aveva illuminato un tentacolo largo più di mezzo metro. A quel punto, spaventato e incuriosito, aveva osservato il mostro spostandosi per tutto il ponte. Aveva dimensioni gigantesche, in quello che pareva il muso spuntava un becco adunco come quello di un pappagallo e i tentacoli raggiungevano i 50 m di lunghezza. Questo si era lasciato tranquillamente scrutare per almeno una quindicina di minuti, mentre «ogni tanto spalancava completamente le valve... mostrando qualche difficoltà nel muoversi al buio della notte».
Opposta e totalmente diversa era stata invece la risposta della gente, dei lettori comuni, che erano rimasti affascinati dal fatto, frattanto immediatamente rimbalzato anche su altre testate. In fretta e furia l'Ammiragliato aveva indetto una conferenza stampa al fine di vederci chiaro e aveva subito disposto un'inchiesta. La prima cosa era stata ovviamente quella di sentire il testimone principale, il capitano Peter M'Quhae, per vedere di chiarire la storia. Fra l'evidente imbarazzo dell'ammiraglio Sir W.Gage, a cui era stata affidata la responsabilità degli accertamenti, il capitano aveva replicato che, malgrado qualche irrilevante inesattezza, il racconto comparso sul giornale non si discostava da quella che era stata la realtà: avevano davvero visto un mostro marino. Il fatto era stato registrato nel diario di bordo e sin da subito si era stabilito di rendere noto l'avvistamento ai mezzi di diffusione delle notizie. Ecco, in sintesi, come erano andate le cose. Verso le cinque del 6 agosto 1848, mentre la Daedalus si trovava fra il Capo di Buona Speranza e l'isola di Sant'Elena, un guardiamarina aveva segnalato a prua una sconosciuta creatura marina accompagnare la nave per un certo tratto. La maggior parte dell'equipaggio stava cenando in coperta. Sul ponte c'erano soltanto sette persone, fra cui il capitano, l'ufficiale di quarto e quello di rotta. Tutti avevano avuto modo di osservare quello che il capitano M'Quhae aveva definito un "serpente enorme" - di non meno 30 m di lunghezza - che nuotava in parallelo con la fregata, in apparenza ignaro della sua vicinanza. Secondo il capitano, l'essere viaggiava a una velocità compresa fra 12 e 15 miglia orarie ed era rimasto nel loro raggio di osservazione per non meno di venti minuti. Anche se il pomeriggio era piovigginoso e un po' uggioso, l'atmosfera era sufficientemente tersa per poter vedere con chiarezza, al punto che nel corso della testimonianza aveva puntualizzato: «Si fosse trattato di qualcuno di mia conoscenza, non avrei avuto esitazione a riconoscerlo tranquillamente a occhio nudo». Il mostro aveva una testa serpentina larga e grossa, sorretta da un collo di una quarantina di centimetri, con un corpo che si snodava in circa 18 m di gobbe serpentine che increspavano la superficie dell'acqua. Il colore, uniforme, era marrone scuro, fatta eccezione per la parte sotto la gola che era di un bianco giallastro. Stando a M'Quhae l'animale avanzava senza alcun sforzo, senza l'ausilio di pinne e neppure della spinta derivata dal moto ondulatorio del corpo, tipico dei serpenti e delle anguille. La cosa poteva forse spiegarsi con la presenza lungo il corpo dell'animale di alghe marine, capaci di nascondere pinne propulsive. Mai il serpente era stato visto aprire la bocca e mostrare una «mascella irta di denti aguzzi», come invece era stato riportato nell'articolo del «Times». Tutti i testimoni erano concordi nel riconoscere che certamente lo strano essere non era spaventato, sebbene sembrasse procedere con una tale speditezza da dare ad intendere di stare seguendo qualcosa. Il capitano si era affrettato a farne uno schizzo che aveva presentato all'inchiesta, convertendolo poi in una grande raffigurazione dettagliata a corredo della sua descrizione orale. Per guadagnare credito, l'Ammiragliato non solo aveva chiuso l'inchiesta celermente, ma aveva tenuto a diramare immediatamente il rapporto conclusivo, per placare la controversia nata fra la gente. Il 13 ottobre la relazione compariva già sui giornali e quindici giorni dopo l’Illustrated London News pubblicava il resoconto dell'avvistamento corredato di alcuni disegni, ottenuti dalle indicazioni di M'Quhae, in cui si vedevano la fregata e il mostro marino procedere insieme in mezzo alle onde. In breve il caso era diventato questione all'ordine del giorno e aveva infiammato non pochi accesi momenti di discussione un po' ovunque. I restanti sei testimoni citati dal capitano non fecero che confermare il suo racconto, anche se esistevano senz'altro alcune discrepanze. Una rivista pubblicò una sintesi del giorno dell'avvistamento estratta dal giornale di bordo dell'ufficiale di quarto, il luogotenente Edgar Drummond. Questi, per esempio, aveva valutato in circa 3 m la lunghezza della testa del mostro, senza dubbio troppo grande per poter essere sorretta da una collo di non più di 40 cm di diametro. Per lui il corpo non era più lungo di 6 m e pur ricordando che il capitano aveva detto di averne osservati almeno altrettanti di coda, non si arrivava comunque ai 20 m della descrizione di M'Quhae. Drummond, inoltre, non pensava che il dorso dell'animale fosse incrostato di alghe, ma era più propenso a credere che fosse percorso da una unica, lunga pinna fluttuante. Ce n'era abbastanza affinchè gli scettici soffiassero sul fuoco della incoerenza delle testimonianze e quindi della loro scarsa attendibilità; altri, con più delicatezza, senza mettere in forse la buona fede dei testimoni, si interrogavano piuttosto sulla bontà della loro vista. Un lettore aveva scritto al «Times» pregando di girare al capitano la sua domanda: come mai non aveva dato ordine ai suoi uomini di dare la caccia al favoloso mostro? Mentre un altro ancora si domandava, ma in tono più faceto che serio, perché non gli avessero silurato contro una bella bordata. Un contributo senz’altro più costruttivo al dibattito, venne da una lettera pubblicata sulla «Literary Gazette», nella quale si ricordava che forse il mostro avvistato dagli uomini della Daedalus poteva corrispondere al serpente di mare descritto dal vescovo danese Pontopiddan nel suo importante trattato di zoologia. Si leggeva, fra l'altro: «Può darsi che il prode capitano abbia letto il libro dello zoologo danese, se ne sia rammentato e abbia fantasticato sulla visione di un mostro analogo, dal momento che la descrizione è pressoché identica: dal colore bruno scuro al candore della parte del corpo sotto la gola, al lungo collo e al dorso ricoperto da una sorta di peluria simile alla criniera di un cavallo». Malgrado le accuse, il capitano M'Quhae preferì sempre mantenere un dignitoso silenzio. Per smuoverlo dalla sua apatia era stato necessario l'intervento di uno dei grandi esperti uomini di scienza europei. Si trattava di Sir Richard Owen, anatomista, naturalista e paleontologo, il quale, ad un tratto, si era messo alla testa della crociata dei contestatori contro l'avvistamento della Daedalus. Per molti Owen era reputato il più grande zoologo vivente. Conservatore fino al midollo, sarebbe diventato da lì a poco uno dei più violenti oppositori della nuova teoria evoluzionistica proposta da Darwin. Il primo affondo Owen lo mise a segno inviando al «Times» la copia di una lunga lettera da lui scritta ad un amico, il quale gli aveva chiesto se, ammessi la verità dell'avvistamento, il mostro non potesse per caso esser un esemplare sopravvissuto dell'era dei grandi sauri, l'ipotesi più sovente ricordata nelle varie diatribe in merito. Per Owen il capitano M'Quhae aveva soltanto immaginato che l'animale fosse un serpente marino, perché in realtà non possedeva alcuna conoscenza scientifica, tanto meno biologica, e avrebbe dovuto lasciare le deduzioni agli studiosi. Poi, il luminare giungeva a concludere che doveva trattarsi di un mammifero e, dal momento che era convinto che si stava parlando di un animale già ben noto agli zoologi, aveva citato la Phoca Proboscidea, detta anche elefante marino. (Il livello di preparazione e conoscenza posseduto da Owen in merito ai serpenti di mare si può ben valutare dalla sua affermazione secondo la quale capitava spesso che navi in mare aperto fossero seguite dagli alligatori: informazione del tutto impropria, dal momento che questi rettili non sono bravi nuotatori, tanto da disdegnare persino le turbolenze delle acque fluviali). In effetti, però, l'elefante di mare, che altro non è che una foca gigantesca, può raggiungere anche i 6 m di lunghezza e vive nei mari lungo le coste antartiche. Secondo Owen, un esemplare di questa creatura era rimasto isolato su di un grande lastrone di ghiaccio, sul quale era riuscito a sopravvivere per qualche tempo, poi, una volta che l'iceberg si era sciolto, si era trovato costretto a nuotare in mare aperto fino a che le forze lo avevano assistito. Forse, quando si era incrociato con la fregata del capitano M'Quhae, l'animale stava morendo e questo avrebbe giustificato la sua scarsa attenzione nei confronti della nave. Quello che il capitano aveva scambiato per una lunga parte sommersa dell'animale, altro non erano che le increspature provocate nell'acqua dal movimento orizzontale della possente coda della bestia, che si dipartivano in linea retta dietro il corpo. Infine, quella che era stata scambiata per una sorta di cresta pinnata, non sarebbe stato altro che il tipico corredo di queste foche giganti, una specie di folta criniera da cui appunto il nome di leoni di mare. Owen, dunque, negava con assoluta certezza l'esistenza di serpenti di mare, fondando la sua osservazione sul fatto che, dopo tutto, la scienza non ne aveva mai avuto sentore né prove e chiudeva la lettera dicendo: «Se valutiamo le testimonianze, ebbene, allora è più facile che esistano i fantasmi che non i serpenti di mare». Rivolgendosi al «Times», M'Quhae aveva risposto in tono stizzoso ma deciso che la creatura da lui vista quel giorno non era un leone di mare, animale che ben conosceva, e neppure un qualsiasi altro tipo di foca. In qualità di marinaio esperto, poi, era in grado di valutare la differenza fra una semplice turbolenza e il concreto passaggio in acqua di un corpo solido. Infine, precisava non solo di non di non avere mai letto il libro del vescovo Pontopiddan, ma di averne sentito parlare solo a seguito della lettera comparsa sulla «Literary Gazette» e che dunque quella narrazione non aveva potuto in alcun modo influenzare la sua descrizione del mostro. Infine, M'Quhae chiudeva la sua lettera dichiarando che non era affatto vero che fra i testimoni fosse scoppiata una grande eccitazione, né poteva in alcun modo essersi trattato di un avvistamento frutto di illusione ottica. La sua testimonianza doveva essere intesa per quello che era veramente, vale a dire «la singolare, fortunata opportunità di essere entrato in contato con il "grande ignoto", certamente comunque da non identificare con un fantasma». Questa lettera costituì l'ultima parola del capitano sulla faccenda ed il tono era quello di un uomo stanco da morire per il trascinarsi di una polemica assurda che lo aveva letteralmente sfiancato. A dieci anni di distanza da questi fatti, il capitano Frederic Smith aveva scritto al «Times» raccontando il presunto avvistamento di un serpente di mare fatto dalla sua nave, la Pekin. Il mostro aveva «testa e collo possenti, coperti da una peluria folta, simile alla criniera di un cavallo». In realtà, l'animale si era poi rivelato essere una lunga striscia di alghe marine brunite, ondeggianti nell'acqua. La lettera terminava azzardando che quasi certamente anche il caso della Daedalus avrebbe potuto avere questa spiegazione. Pronta era arrivata la puntualizzazione di uno dei testimoni che quel giorno si trovavano sul ponte della Daedalus. Con fermezza si precisava, ancora una volta, che «il serpente, al di là di ogni possibile dubbio, era un essere vivente, che procedeva rapidamente nell'acqua». L'osservazione non era stata solo ravvicinata, ma anche prolungata. Di nuovo, i dettagli ricordati erano troppi e puntuali per dar adito a dubbi. Alla fine della storia, era stato l'Ammiragliato a dare un piccolo segno di apertura, inserendo il rapporto del capitano M'Quhae e i resoconti dell'avvistamento nell'archivio ufficiale della Marina, primo caso ad avere tanto onore. In verità, ancor prima del 1848 si contavano già dozzine di testimonianze significative sugli avvistamenti di serpenti di mare. In un suo libro, il ricercatore Bernard Huevelmans elenca 150 casi, compresi fra il 1639 e il 1848. Il caso risalente al 1639 è di seconda mano, ma disponiamo di molti altri estremamente dettagliati, proprio come quello del capitano M'Quhae. Per esempio, il racconto del capitano George Little, della I fregata Boston. Nel maggio del 1740, mentre stavo navigando nei pressi di Itmad Bay, al largo del Maine «vidi un grande serpente che stava provenendo dalla baia, proprio sul pelo dell'acqua». Una lancia piena di uomini armati era stata subito calata in acqua per osservarlo più da vicino, ma «dopo neppure una trentina di metri... il serpente si era inabissato. Poteva misurare dai 10 ai 15 m; mentre la sezione più grande del corpo era di circa 40 cm; la testa grande come quella di un uomo, che l'animale teneva di un paio di metri fuori dall'acqua. A vedersi sembrava, in tutto e per tutto, un gigantesco serpente nero».
I casi citati da Huevelmans fra il 1639 e il 1966 arrivano al bel numero di 587. Uno dei più interessanti risalente al 1966 ebbe come testimoni due inglesi, John Riclgeway e Chay Blyth: “Ricordo che venni svegliato completamente da un rumore che proveniva da prua. Scattato in piedi, mi ero affacciato dal ponte per vedere di che si trattava ed avevo così potuto scorgere il fremente ondeggiare di una grossa creatura. La potevo scorgere assai bene grazie al fenomeno della fluorescenza marina, come se attaccato al corpo si portasse dietro delle lampade al neon che ne tracciavano la traiettoria. Era enorme, certamente più di dieci metri e si dirigeva verso di noi velocemente... puntava proprio diritto verso di me, ma appena prima di avvicinarsi troppo era scomparso... La sua apparizione mi aveva completamente raggelato di terrore.”
Huevelmans chiude il capitolo e la rassegna dei casi, ricordando il resoconto di due turisti inglesi che nei pressi di Skegness, nell'Inghilterra orientale, si erano imbattuti in un essere «simile al mostro di Loch Ness», osservato a non più di 100 m dalla spiaggia: «Aveva la testa simile a quella di un serpente e il corpo si snodava in sei o sette ampie gibbosità». Poi prosegue citando Sir Arthur Conan Doyle, per il quale se un uomo sostiene di aver abbattuto un okapi in Africa, non viene creduto; ma se la stessa cosa la dicono cinquanta uomini, «diventa decisamente più convincente». Così 587 avvistamenti - anche se alcuni sono stati sconfessati come falsi e burle - non c'è dubbio che costituiscono una base convincente piuttosto considerevole per un fenomeno che vale senz'altro la pena di indagare. Huevelmans, dunque, analizza i suoi casi, raggruppandoli in sette diverse categorie: le "super lontre", dalla testa piatta e lunga e dal corpo simile a quello di una lontra; i serpenti dalle molte gibbosità; i serpenti dalle molte pinne, con protuberanze laterali; i cavalli di mare, creature con la criniera; i serpenti dal lungo collo, dotati di un collo lungo e sottile, e, infine, le "super anguille", simili a giganteschi serpenti. La settima categoria è una specie di sua invenzione, la «madre di tutte le tartarughe» dal momento che il mostro viene descritto come una gigantesca testuggine ma si tratta di una classificazione che alla fine Huevelmans abbandona, perché poco credibile e dubbia. Le prime cinque classi parrebbero essere mammiferi, la sesta, quella delle super anguille, pesci, considerati i resti scheletrici. Il vescovo Pontoppidan, che già abbiamo incontrato, non fu il primo a descrivere il serpente di mare. Nel 1539 il vescovo svedese Olaf Mansson (il cui nome latinizzato suona Olaus Magnus) pubblicò a Venezia una mappa delle regioni del nord in cui erano raffigurati due mostri marini. E in un libro dal titolo Storia dei Goti, degli Svedesi e dei Vandali edita nel 1555 sempre Olaf descrive un serpente «lungo oltre 60 m e col corpo largo più di 6 m» che viveva ben nascosto negli anfratti al largo di Bergen. Questa storia, unitamente alle drammatiche descrizioni di giganteschi mostri marini che assalgono e distruggono barche e navi, venne ereditata da tutti gli enciclopedisti del tempo e tramandata di testo in testo. A proposito del serpente di mare, riporta la testimonianza diretta, di prima mano, di un certo capitano Lorenz Von Ferry, il quale, avvistata la creatura, aveva dato ordine di inseguirla per osservarla da vicino. Ne era nata una descrizione molto dettagliata, dove il mostro è presentato con la testa cavallina munita di una folta criniera bianca, occhi scurissimi e molte placche rigonfie o gibbosità, separate l'una dall'altra e molto accentuate (almeno un paio di metri di altezza). In merito al libro di Pontoppidan si deve riconoscere che, specie nel mondo inglese, non è considerato una fonte attendibile. La traduzione del 1765 ha provocato molti dubbi e il capitano (poi ammiraglio) Charles Douglas, che aveva a cuore l'approfondimento dell'enigma, ebbe modo di scoprire che molti dei testimoni citati non erano del tutto affidabili. Abbastanza curiosamente, però, scoprì che mentre i popoli del nord, specie i Norvegesi, non esitano a credere ciecamente nell'esistenza dei grandi “Vermi del mare”, come chiamano i serpenti marini, sono propensi invece a relegare il kraken, vale a dire la piovra gigante, nel mondo dei miti. E tutto il mondo scientifico lo aveva sempre ritenuto tale, fino a quando nel 1970 ci fu un cambiamento di rotta e anche la piovra gigante è rientrata nel catalogo delle creature marine esistenti. La leggenda del kraken - il polipo gigante che a volte attacca nuotatori, navi e persino villaggi costieri - è antichissima e la si può far risalire sino al tempo del latino Plinio, che descrive un polipo con tentacoli lunghi quasi dieci metri, emerso dal mare per cibarsi dei pesci che alcuni pescatori stavano salando, lungo la costa del villaggio spagnolo di Carteia. Il mostro era stato ucciso solo dopo una terribile e strenua lotta. Oltre alla cultura romana, tutte le altre in qualche modo legate al mare, posseggono il mito del kraken, sottolineandone la presunta esistenza nella realtà. A confronto, il kraken ricordato da Pontoppidan sembra innocuo. Egli scrive che alcuni pescatori locali avevano scoperto un luogo al largo della costa norvegese in cui in certi periodi dell'anno il livello delle acque, normalmente attestato attorno ai cento metri di profondità, scendeva in modo vistoso, fin quasi a dimezzarsi diventando torbido e fangoso e al contempo pullulante di pesci. A loro giudizio il fenomeno era dovuto alla presenza del kraken, una piovra immensa, dalla circonferenza di oltre un miglio e mezzo, che destatasi dal suo sonno oceanico, attirava i pesci col richiamo dei suoi allettanti escrementi. Il mostro era solito non procurare guai all'uomo, se solo si aveva l'accortezza di starsene in osservazione sulla barca alla giusta distanza di sicurezza. L'animale, infatti, dava segno di una grande inerzia e di massima perizia: osservato da lontano, il suo corpo enorme sembrava un arcipelago di piccole isolette interconnesse fra loro da una sostanza simile a strati di erbacce, qua e là punteggiate da "corni", protuberanze così evidenti da potersi paragonare «a alberi maestri di navigli di medie dimensioni». Una volta terminato il lauto banchetto, procurato dalla miriade di pesci accorsi al suo richiamo, il kraken si rituffava negli abissi e la zona di mare tornava come prima. Con la fine del XVII secolo, questo genere di creature vennero definitivamente relegate nel mondo dei sogni, meglio, degli incubi di marinai e uomini di mare. Ma, poco alla volta, il numero sempre crescente di avvistamenti segnalati nel secolo successivo, specie al largo delle coste americane, fece cambiare ancora una volta la rotta del giudizio scientifico, intaccando con vigore lo scetticismo dei non credenti. Evidenti segni di gigantesche ventose osservati dai biologi sul corpo delle grandi balene e la scoperta nel loro stomaco di frammenti di lunghi tentacoli hanno chiarito, una volta per tutte, che piovre e calamari giganti esistono per davvero. Nel novembre del 1861 l'equipaggio della nave da caccia francese Atecton, ebbe modo di scorgere un calamaro gigante al largo di Tenente ed era riuscito ad arpionarlo. La creatura stava morendo e quindi non solo si era lasciata avvicinare senza reagire, ma quando i marinai avevano tentato di issarla sul ponte della nave si era spezzata in due tronconi. Il corpo era lungo più di otto metri e l'orifizio orale largo circa mezzo metro. La parte recuperata era comunque più che sufficiente a dimostrare l'esistenza dei polipi giganti, tanto da poter trarre un meticoloso rapporto scientifico letto il 30 dicembre 1861 all'Accademia francese delle scienze. Anche davanti a questa testimonianza lo zoologo Arthur Mangin aveva però espresso dei dubbi, chiedendosi come mai la creatura non si era inabissata. Insomma, le sue confutazioni erano state così insistenti e violente da convincere in pratica tutti i presenti che si stava dibattendo un caso fasullo e che il rapporto non era credibile. Sul finire degli anni Settanta del XIX secolo fece notizia la spiaggiatura sulle coste del Newfoundiand e del Labrador di un discreto numero di calamari giganti. Era ovvio che, davanti a quelle prove viventi nessuno avrebbe più potuto obiettare o muovere dubbi. Nel 1896 un corpo gigantesco, per quanto mutilato, si arenò sulla spiaggia di St. Augustine, in Florida, fotografato ed esaminato con attenzione dal dottor DeWitt Webb. Per rimorchiare in terraferma le oltre sei o sette tonnellate della carcassa del misterioso mostro erano occorsi quattro cavalli, sei uomini e un robusto paranco. Il giudizio degli esperti parlò di una balena morta in decomposizione. Ma settantacinque anni dopo, l'analisi scientifica e di laboratorio di un frammento conservato del mostro, rivelò che in realtà si trattava di una piovra gigante (non un calamaro) che poteva raggiungere la incredibile lunghezza di quasi 60 m, una vera e propria colossale creatura che avrebbe occupato una bella parte di Piccadilly Circus o Times Square. Per fortuna imbattersi in un gigante simile è cosa rara. Uno dei resoconti più vivi risale al tempo della seconda guerra mondiale. Il 25 marzo del 1941 in una remota zona dell'Atlantico meridionale, il vascello alleato Britannia era stato oggetto di un attacco aereo di caccia tedeschi battenti bandiera giapponese. L'assalto era stato decisivo e la nave era ormai perduta. I tedeschi, allora, avevano concesso qualche minuto all'equipaggio per lasciare la nave, alla quale sarebbe stato dato il colpo di grazie per affondarla definitivamente. Poiché il Britannia non era corredato da un numero sufficiente di lance di salvataggio, molti marinai erano stati costretti a scendere in mare su zattere improvvisate, trovandosi nel cuore dell'oceano lontani dalle rotte solitamente battute. Una di queste scialuppe di fortuna era piena di uomini stanchi e feriti. Fra questi, si contavano i luogotenenti Rolandson e Davidson della Marina Inglese e il luogotenente R.E. Grimani Cox dell'Esercito indiano, tre dei sopravvissuti ai quali dobbiamo la testimonianza che segue: “non avevano né cibo né acqua potabile e il sole li martellava senza pietà. Per evitare che la zattera si capovolgesse erano continuamente costretti a distribuire il peso, movendosi lungo i bordi con la massima precauzione e stando attenti agli assalti delle fisalie, pericolose con i loro terribili aculei e numerose «come un esercito di api». Il secondo giorno alcuni uomini avevano incominciato a delirare, il terzo era iniziata la danza degli squali attorno al relitto. Dopo altri tre giorni di strenua resistenza, gli uomini avevano cominciato a cedere e, cadendo nel mare, a trovare la loro terribile fine. Un giorno, ad un tratto, per la gioia dei sopravvissuti, gli squali erano spariti. Allora, uno di loro si era messo a guardare verso il fondo e con orrore aveva scorto l'immenso corpo di una creatura tentacolata che stava emergendo proprio nella loro direzione. Un attimo dopo alcuni tentacoli stavano già avvinghiandosi alla zattera. Poi, con la velocità del fulmine, un tentacolo aveva imprigionato un marinaio indiano e lo aveva trascinato in mare. Il grugnito di soddisfazione che si era levato dal mostro aveva fatto intendere la sua momentanea soddisfazione. Dopo qualche istante era stato Cox ad essere assalilo, ma per sua fortuna il tentacolo non aveva fatto bene presa sul suo braccio e con l'aiuto dei compagni era riuscito a ricacciarlo in mare. Alla fine tutto si era placato. Qualche giorno dopo i tre unici superstiti dei dodici imbarcati sul relitto erano stati recuperati da una nave spagnola e messi in salvo. Quando nel 1943 il luogotenente Cox era stato visitato dall'illustre biologo marino inglese, dottor John L. Cioudsley-Thompson, questi aveva avuto agio di osservare sul suo braccio una serie di bruciature a forma di disco, dal diametro di circa 4-5 cm, che piagavano la pelle affondando nella carne, segno doloroso e indelebile dello scampato pericolo. Cloudsley-Thompson non potè fare a meno di ammettere che quei segni, così chiari e distinti, erano del tutto assimilabili a quelli lasciati dalle ventose urticanti di calamari e polipi. Dalle dimensioni dei segni, poi, si poteva tranquillamente dedurre che l'animale in questione doveva misurare più di 7 m di lunghezza. Mentre Richard Owen e i suoi seguaci avrebbero gridato al mostro dalle incredibili proporzioni, l'unica cosa che sembrava tormentare il dottor Cloudsley-Thompson era il dubbio che un animale di quella stazza fosse in grado di avvinghiare e portarsi via un uomo. Al tempo di guerra risale anche un altro interessante rapporto redatto da un certo J.D. Starkey. Una notte, come sovente gli capitava di fare, mentre si trovava a bordo di un motopeschereccio dell'Ammiragliato nel cuore dell'oceano Indiano, stava sistemando alcune lampare sul fianco dell'imbarcazione, fini l'intento di attirare pesci. Guardando verso il mare si era trovato all'improvviso al cospetto di un «gigantesco occhio verde spalancato» che lo scrutava. Sventagliando il fascio di una potente torcia, Starkey aveva illuminato un tentacolo largo più di mezzo metro. A quel punto, spaventato e incuriosito, aveva osservato il mostro spostandosi per tutto il ponte. Aveva dimensioni gigantesche, in quello che pareva il muso spuntava un becco adunco come quello di un pappagallo e i tentacoli raggiungevano i 50 m di lunghezza. Questo si era lasciato tranquillamente scrutare per almeno una quindicina di minuti, mentre «ogni tanto spalancava completamente le valve... mostrando qualche difficoltà nel muoversi al buio della notte».