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giovedì 28 aprile 2011

La scomparsa di Juan Romero


Degli avvenimenti che si svolsero alla miniera Norton il 18 e 19 ottobre 1894 non ho alcun desiderio di parlare, ma il mio senso di lealtà nei confronti della scienza mi costringe, in questi ultimi anni di vita, a rievocare quell'episodio spaventoso, anzi, doppiamente spaventoso perché non riesco a spiegarmelo del tutto. Credo che prima di morire io debba rivelare quello che so sulla... diciamo scomparsa di Juan Romero.

Non c'è bisogno che il mio nome e la mia origine siano tramandati alla posterità, anzi è meglio tacerne: quando un uomo emigra improvvisamente negli Stati Uniti o nelle colonie si lascia, di solito, il passato alle spalle. Inoltre, quello che sono stato un tempo non ha importanza ai fini di questo racconto: c'è un solo particolare che val la pena riportare, e si riferisce al mio passato in India. A quei tempi ero sotto le armi, eppure mi sentivo più a mio agio tra i barbuti maestri orientali che non tra i colleghi dell'esercito. Avevo sondato non poco le dottrine d'Oriente quando le avversità della vita mi portarono nell'immenso ovest americano; lì mi sembrò opportuno adottare un nome quello che porto adesso tra i più comuni e i meno appariscenti.

Nell'estate e nell'autunno 1894 vivevo nelle aride distese delle Cactus Mountains, lavorando come semplice operaio presso la famosa miniera Norton. La miniera, scoperta pochi anni prima da un anziano prospettore, aveva trasformato una landa spopolata e disabitata in un calderone che ribolliva di vita equivoca. Una grotta d'oro, profondamente nascosta sotto un lago di montagna, aveva arricchito il suo vecchio scopritore oltre i più fantastici sogni e ora costituiva la sede di imponenti lavori di scavo da parte della società cui era stata venduta. Si erano scoperte altre grotte e la quantità di metallo giallo era enorme: un esercito eterogeneo di minatori scavava giorno e notte nei numerosi corridoi e anfratti rocciosi. Il sovrintendente, un certo signor Arthur, parlava spesso delle singolari formazioni geologiche cui ci trovavamo dinanzi, faceva ipotesi sulla probabile estensione della rete di caverne e valutava il futuro della titanica impresa mineraria. Secondo lui le cavità aurifere erano prodotte dall'azione dell'acqua e riteneva che fra non molto avremmo scoperto le ultime.

Juan Romero arrivò alla miniera Norton non molto dopo di me. Membro di quella vasta truppa di messicani disoccupati che il bisogno di lavoro spingeva a varcare il confine, in un primo momento attirò l'attenzione solo per i suoi lineamenti: pur essendo decisamente indio, infatti, aveva un colore e una finezza di tratti che lo distaccavano nettamente dai pellerossa locali,greaser o piute che fossero. E lo strano è che, pur essendo diverso dagli indiani delle tribù o da quelli spagnolizzati, Romero non dava affatto l'impressione di avere qualche goccia di sangue caucasico. In lui non c'era

niente delconquistador castigliano o del pioniere americano, ma dell'antico e nobile azteco: ed era questa l'immagine che la fantasia chiamava alla mente quando il taciturno peone si alzava la mattina presto e seguiva affascinato il sorgere del sole fra le montagne, tendendo le braccia verso l'astro come nella mimica di un rito che non conosceva. A parte la faccia, del resto, Romero non suggeriva in alcun modo la nobiltà. Sporco e ignorante, si sentiva a suo agio fra gli altri messicani bruni e proveniva (come seppi in seguito) da un ambiente bassissimo. Da bambino era stato trovato in una rozza capanna di montagna, unico superstite di un'epidemia che aveva fatto strage. Vicino alla capanna, e a pochi passi da una strana fenditura nella roccia, erano stati trovati due scheletri completamente spolpati dagli avvoltoi che con tutta probabilità erano tutto quello che restava dei suoi genitori. Nessuno ricordava la loro identità e presto erano stati dimenticati. Il crollo della capanna e il riempimento della fenditura a causa di una successiva valanga avevano distrutto ogni traccia della scena. Allevato da una famiglia di ladri di bestiame messicani gli stessi che gli avevano dato il nome Juan non era molto diverso dai suoi simili.

L'attaccamento che mostrava per me era dovuto, senza dubbio, all'antico e curioso anello indù che portavo nei momenti di riposo. Non dirò che cosa rappresentasse e come fosse venuto in mio possesso: apparteneva a un periodo definitivamente concluso della mia vita e gli attribuivo un grande valore. Ben presto osservai che il curioso messicano lo guardava affascinato, ma con un'espressione che faceva escludere la pura e semplice avidità. I bizzarri geroglifici che coprivano l'anello sembravano risvegliare nella sua mente pronta ma ineducata qualche vago ricordo, anche se non era possibile che li avesse visti altrove. Nel giro di qualche settimana Romero era diventato il mio fedele servitore, nonostante io fossi un semplice minatore come lui. La nostra conversazione era, giocoforza, limitata: lui sapeva poche parole d'inglese e io scoprii che il mio spagnolo accademico era molto diverso dal dialetto in voga tra i peones della Nuova Spagna.

Il fatto che sto per raccontare non fu anticipato da segni premonitori, e benché il messicano m'interessasse e il mio anello avesse un influsso particolare su di lui, credo che nessuno dei due si aspettasse ciò che avvenne dopo l'esplosione della carica. Considerazioni geologiche ci avevano indotto a progettare un'estensione della miniera verso il basso, cominciando a scavare nel punto più profondo che avevamo raggiunto fino a quel momento; il sovrintendente era convinto che avremmo trovato soltanto roccia, per cui fece disporre una carica di dinamite potentissima. Romero ed io

non fummo direttamente coinvolti in questo lavoro e apprendemmo da altri la straordinaria scoperta. La carica, forse ancora più potente di quanto si fosse calcolato, aveva fatto tremare la montagna: le finestre delle capanne erano andate in frantumi per l'urto e i minatori un po' dappertutto si erano ritrovati con la faccia a terra. Il lago Jewel, che si trovava proprio sulla scena dell'esplosione, fu agitato da grosse onde. Le indagini dimostrarono che sotto la sede dello scoppio si apriva un abisso senza fondo, una voragine così tremenda che nessuna delle nostre corde poteva toccarne l'estremità e nessuna lampada riusciva a illuminarla. Interdetti, gli scavatori si erano riuniti a consiglio col sovrintendente: questi aveva ordinato di legare fra loro numerose corde e di continuare ad abbassarle finché non si toccasse il fondo.

Non molto tempo dopo i pallidi operai lo avevano informato del loro fallimento. Con fermezza, anche se con rispetto, gli avevano comunicato la loro intenzione di non scendere più nella voragine e anzi di non voler lavorare alla miniera finché quella via fosse rimasta aperta. Evidentemente si trovavano di fronte a qualcosa che sfidava la loro esperienza, e, a quanto ne sapevano, la voragine non aveva fondo. Il sovrintendente non li aveva rimproverati, ma anzi aveva riflettuto attentamente e fatto piani per il giorno seguente. Quella sera il turno di notte non si effettuò.

Alle due del mattino un coyote solitario cominciò a ululare in modo spaventoso. In un altro punto dell'accampamento un cane abbaiò in risposta al coyote... o forse a qualcos'altro. Un temporale si annunciava oltre le cime delle montagne, e nuvole dalle forme fantastiche coprivano minacciosamente il vago chiarore della luna a tre quarti.

Fu la voce di Romero, dalla cuccetta sopra la mia, a svegliarmi; una voce tesa, eccitata, come in attesa di qualcosa che non riuscivo a comprendere:
«Madre de Diòs!... el sonido... ese sonido... oiga Vd! lo oye Vd?... Señor, QUEL SUONO!»

Ascoltai, cercando di capire a quale suono si riferisse. Il coyote, il cane, il temporale, erano tutti perfettamente udibili; il frastuono degli elementi dominava tutto, perché il vento era sempre più forte. Attraverso le finestre del dormitorio si vedevano i lampi. Interrogai il nervoso messicano, riepilogando le possibili fonti di rumore:
«El coyote?... el perro?... el viento?»
Ma Romero non rispose. Poi, come scosso da un sacro timore, cominciò
a sussurrare:

«El ritmo, señor... el ritmo de la tierra... QUELLE PULSAZIONI NEL
TERRENO!»

Adesso le sentivo anch'io e tremavo senza sapere perché. Sotto di me, nel profondo della terra, si udiva un suono, o meglio un "ritmo", proprio come aveva detto il peone; e benché lontanissimo sovrastava sia il verso del cane che quello del coyote e il fragore in aumento del temporale. Sarebbe inutile tentare di descriverlo, perché era qualcosa che sfugge alle parole. Potrei paragonarlo al pulsare dei motori nel cuore di un piroscafo come lo si sente dal ponte, ma non era altrettanto meccanico, non era del tutto privo degli attributi di vita e coscienza. Delle sue qualità quella che mi colpì maggiormente fu lalontananza nella terra. Mi venne alla mente il brano di Joseph Glanvill che Poe ha citato con così grande effetto:
"La vastità, profondità e imperscrutabilità dell'opera Sua, più profonda
del pozzo di Democrito".

All'improvviso Romero balzò dalla cuccetta e si fermò accanto a me per guardare l'anello, che brillava in modo strano a ogni lampo; poi si avviò verso il pozzo della miniera. Mi alzai anch'io e per qualche minuto restammo immobili, tendendo le orecchie al ritmo che sembrava acquistare una vitalità sempre maggiore. Poi, senza apparente volontà da parte nostra, ci dirigemmo verso la porta che sbatteva al vento, e il cui rumore ci aveva dato una confortevole illusione di realtà terrena. Il canto dell'abisso (perché ormai questo sembrava) crebbe in volume e in chiarezza. Ci sentimmo attratti irresistibilmente dal temporale e poi dall'apertura nera del pozzo.

Non incontrammo anima viva: gli uomini del turno di notte erano stati esonerati e si trovavano certamente nel villaggio di Dry Gulch, tutti presi a sciorinare storie orribili a qualche sonnolento barista. Dalla capanna del guardiano, tuttavia, brillava un piccolo rettangolo di luce gialla come l'occhio di una sentinella. Mi chiesi vagamente se il suono che saliva dalla terra lo avesse allarmato, ma Romero si muoveva più rapidamente e non mi diede il tempo di accertarmene.

Mentre scendevamo nel pozzo, il ritmo pulsante si fece articolato. Ai miei orecchi suonava come un'orribile litania orientale, con battere di tamburi e un coro di molte voci: come ho già detto, sono stato a lungo in India. Romero ed io ci muovevamo senza esitazione giù per scale e corridoi, sempre più vicini alla cosa che ci attirava eppure dominati da uno strano senso di paura e riluttanza. Una volta credetti di impazzire: fu quando mi chiesi che cosa illuminasse la nostra strada, visto che non avevamo né lampade né candele, e mi resi conto che l'anello emanava un suo lucore innaturale, rischiarando debolmente l'aria umida e soffocante.

Poi, senza preavviso, Romero si calò in fondo a una delle scale di fortuna e cominciò a correre, lasciandomi solo. Una nota diversa, pazzesca, si era insinuata nella melodia e aveva agito su di lui, anche se a me sembrava appena percettibile. Con un urlo selvaggio si precipitò nel buio della caverna; lo sentii gridare più volte mentre barcollava sui tratti pianeggianti e si affannava giù per le scale di fortuna. Per spaventato che fossi, conservai quel tanto di chiarezza che mi permise di notare che la lingua in cui si esprimeva, se pure era una lingua articolata, mi era del tutto sconosciuta. Duri, impressionanti polisillabi avevano sostituito la consueta mistura di cattivo spagnolo e inglese ancor peggiore; un'unica parola riuscii a decifrare, ed era il grido ripetuto di"Huitzilopotchli". In seguito la rintracciai nell'opera del grande storico e rabbrividii per le implicazioni che suggeriva.

Il momento culminante di quella notte terribile fu complesso ma di breve durata, e cominciò nell'attimo in cui raggiunsi l'ultima caverna. Dal buio davanti a me arrivò un urlo del messicano, cui fece eco una tale inaudita cacofonia che non potrei ascoltarla una seconda volta e continuare a vivere. Mi sembrò che tutti i terrori e le mostruosità nascoste della terra avessero trovato voce per sopraffare la razza umana. Contemporaneamente la luce del mio anello si spense e una nuova fiammella sembrò accendersi nelle viscere della terra, a qualche metro da me. Ero arrivato nel punto in cui si apriva l'abisso, che adesso pareva illuminato e che, a quanto ne sapevo, aveva inghiottito lo sfortunato Romero. Avanzai e gettai un'occhiata oltre il bordo del baratro che nessuna corda era riuscita a misurare e che si era trasformato in un pandemonio di fiamme ondeggianti e orrendi rumori. In un primo momento non vidi altro che una vaga chiazza luminosa, ma poi dalla confusione cominciarono a staccarsi delle sagome e vidi... era Juan Romero? Dio, non oso descrivere quello spettacolo... Un potere celeste mi venne in aiuto e provocò uno schianto terribile, simile a quello causato dallo scontro di due universi: non sentii e non vidi più niente, ma finalmente ebbi la pace dell'oblio.

Non so in che modo continuare, dato che entrano in gioco fatti così straordinari: farò del mio meglio, senza cercar di distinguere il reale dall'apparente. Quando mi svegliai ero sano e salvo nella mia brandina e il rosso dell'alba spuntava dalla finestra. A qualche metro da me il corpo di Juan Romero, senza vita, era steso su un tavolo e circondato da un gruppo di uomini, compreso il medico dell'accampamento. Gli uomini parlavano del
la strana morte del messicano, avvenuta mentre dormiva, e sembravano metterla in relazione con il terribile lampo che aveva colpito e fatto tremare la montagna. Non sembrava esserci una causa diretta e l'autopsia non chiarì il mistero della morte di Romero. Dai brandelli di conversazione fu chiaro, senza ombra di dubbio, che né io né il messicano avevamo lasciato il dormitorio durante la notte e che non ci eravamo nemmeno svegliati per il temporale. Gli uomini che si erano avventurati nei pozzi riferirono che il temporale aveva provocato una mezza valanga, chiudendo la voragine che il giorno prima aveva causato tanta apprensione. Quando chiesi al guardiano se avesse sentito dei suoni prima del terribile lampo, rispose che c'erano stati un coyote, un cane e il sibilo del vento. Nient'altro. Non ho motivo di dubitare della sua parola. Prima di riprendere il lavoro il sovrintendente Arthur riunì un gruppo di uomini particolarmente abili per svolgere indagini nel luogo dove si era spalancato l'abisso. Benché poco entusiasti, i prescelti obbedirono e scavarono un grande fosso. I risultati furono molto curiosi: il tetto della voragine, che nel momento in cui si era spalancata ci era sembrato molto sottile, adesso era di dura roccia e le scavatrici non accennavano a trovare il fondo. Dato che non ne veniva fuori niente, nemmeno oro, il sovrintendente abbandonò i tentativi; ma ogni tanto, quando siede a riflettere dietro la scrivania, gli compare sul viso un'aria di dubbio. C'è un'altra cosa strana. Poco dopo essermi svegliato, la mattina dopo il temporale, notai l'inspiegabile assenza del mio anello indù. Per me aveva avuto un'importanza straordinaria, eppure provai una sensazione di sollievo a non trovarmelo al dito. Se l'aveva rubato uno dei miei compagni doveva averlo nascosto bene, perché nonostante le ricerche e l'intervento della polizia non fu più ritrovato. Personalmente dubito che mi sia stato tolto da dita umane: in India ho imparato molte cose strane. La mia opinione sul caso varia di momento in momento. Alla luce del giorno, e per la maggior parte del tempo, ritengo che si sia trattato di un sogno e niente più; ma a volte, in autunno, quando il vento e gli animali si lamentano lugubremente, nelle ore piccole della notte sento il maledetto pulsare della terra che sale da inconcepibili abissi... Allora ho la certezza che la scomparsa di Juan Romero sia stata, in realtà, una fine atroce.
(The Transition of Juan Romero, 16 settembre 1919)



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